Note di un (mezzo) antropologo veneto in Francia
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Gli ultimi giorni della Francia (per come l'abbiamo conosciuta) - 1
Ho la sempre più netta sensazione di essere arrivato in Francia giusto in tempo per i suoi funerali. Sta tirando gli ultimi la Francia "ben ordinata", urbanistica, borghese-illuminata, benintenzionata, per principio giusta nei principi, la “douce France”.
Partiamo da qui, dal dolce. Io pensavo di intendermene, essendo un goloso, invece “douce France” significa un'altra cosa. Si tratta, stando ad Albert Hirshman,
della dolcezza routinaria del commerciante, opposta agli eccessi di una società ancora selvaticamente nobiliare com'era quella inglese nel '700. La Francia è stata detta dolce perché vi si poteva campare facendo affari e sorrisi, mentre in Inghilterra la gente tendeva ancora ad ammazzarsi per primitive questioni di sangue e onore.
Ma la rabbia che è all'origine della Rivoluzione da dove sarà uscita? Anche perché la Rivoluzione non è stata un affare solo parigino: io abito vicino Marsiglia e anche qua di arrabbiati ce ne sono stati molti (chiese distrutte etc.).
Questa rabbia misteriosa ci sarà stata, ma dev'essere nel frattempo rifluita e adesso effettivamente la dolcezza, in quel senso di buon vicinato, è ridiventato uno dei tratti dominanti. Se tutto questo è vero, la novità è che ora attorno al dolce si è creato un sottile strato di amaro, come se il conservarsi vivi e sorridenti non sia più considerata una conquista, ma una condanna, pur nel complesso accettabile. In Italia le cose amare piacciono, si pensi al radicchio, all'acqua brillante, ovviamente agli amari. Sarà per questo che lo sfondo di delusione mi ha colpito più del primo piano di placidità, tanto da farmi sospettare che l'amaro sia una mia proiezione. Ad ogni modo a me pare che questi tranquilli trafficanti di merci e cortesie mostrino di averne piene le scatole di tirar giù la serranda.
Dal croissant all'organizzazione del week-end (che comincia per moltissimi il venerdi sera, altro che COOP strapiena il sabato alle 18), dagli innumerevoli bonjour e bon apetit (che mi è stato detto per strada da quelli che avevano tutto per essere definiti giovinastri sia qui a Salon, mentre mangiavo una mela, sia su vicino a Lille mentre mangiavo delle patatine fritte) sino alla guida da novantenni (costretto dai radar e dalle pattuglie, uno si abitua a vivere ai 30 all'ora), è tutto un andare "tout doucement" ("piano piano"). Ci sarebbe tutto per esserne contenti e rivendicare questo stile di vita come il compimento di una civiltà. Un antropologo, anche un mezzo antropologo come chi scrive, DEVE contemplare questa possibilità, e cioè che una società si complimenti del fatto di aver sconfitto la penuria e di poter ora godersi una sorta di meritata epoca pensionistica. Invece no, si indovina un tarlo.
Come un grande talento brasiliano che si ritrovi ad essere l'adorato capitano di una squadretta giapponese, i francesi mi paiono disincantati circa la propria fortuna: d'accordo, abbiamo quasi tutto, ma niente di quel che conta davvero (che non si sa cosa sia). Il cuoco delle carceri locali ha una piscinetta in giardino, e una piscinetta è pur sempre una piscina dal mio punto di vista. Anche dal suo. Ma: embè? Comprata, riempita, usata, svuotata, pulita etc. Per carità, è sempre bello, ma è pur sempre una piscina, mi ha detto con lo sguardo.
Ecco, forse hanno un rapporto con le cose meno feticistico. Gli interni delle case francesi sono poco curati, i lavori di muratura sono tirati via, ci sono sempre carte da parati e linoleum che coprono precedenti carte da parati e pavimenti disastrati. Si vestono malissimo anche quando si vestono bene, ma in genere manco ci provano. Le macchine sono abbastanza castigate, quelle del mio quartiere spesso piuttosto scassate. Mangiano precotto, male, come capita, un quartiere di 10.000 abitanti con 5 pizzerie da asporto e 2 cinesi non è un quartiere di famiglie che cenano insieme, le pizze poi costano un sacco, chissà come fanno. Le famiglie devono essere di fatto famiglie di single, tutti in giro a sfamarsi come capita, al Carrefour, dai kebabbari del centro, dai pizzettari gioiellieri. Si potrebbe dire che consumano senza essere consumisti rigorosi, cioè senza essere del tutto folli, per cui: hai fame? Ecco, mangia. Vuoi una casa? Ecco una casa, se sei povero non costa niente, quasi te la regaliamo, fa schifo, è perfetta. Non trovi gli spendaccionismi favolosi delle villazze in collina vicino Schio con piscinona e colonna dorica, né le rivolte ascetiche (il bio qui si è diffuso dopo che in Italia, cioè solo quando è diventato meno di nicchia e più “razionale”). Ognuno apparentemente ha quel che pensava di poter avere ed è un consumatore delle cose cui ha diritto: un povero in Francia cosa può avere, se non pizze, thé al bar del quartiere e case popolari? Un non disastrato cosa può avere, se non la sua casetta e le sue bocce la domenica? E via così. Ognuno è nella sua casella, e all'interno della sua casella è regolato al minimo.
Totale, se la società dei consumi è il compimento del tranquillo mercato che è stato alla base della “douce France”, i francesi sono compiuti. Purtroppo lo sanno. Nel complesso non sono granché soddisfatti, ma alla fin fine, ci stanno.
Fino a qui, tutto (abbastanza) bene.
Altre puntate:
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