Un ricordo di Albero Mario Cirese studioso di museografia
Il 1 settembre 2011 è morto a Roma Alberto Mario Cirese, maestro di studi demo-etno-antropologici e scrittore di musei. Era nato ad Avezzano nel 1921. Laureatosi a Roma nel 1944 con Paolo Toschi, iniziò l’attività di ricerca dedicandosi allo studio delle tradizioni popolari del Molise, terra natale del padre Eugenio, poeta vernacolare e maestro elementare. Completati gli studi con Raffaele Pettazzoni alla Scuola di perfezionamento di Etnologia, insegnò Storia delle tradizioni popolari e Antropologia Culturale presso l'Università di Cagliari (1957-1972), di Siena (1972-1974) e poi di Roma, dove nel 1996 divenne professore emerito della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza”.
Questo itinerario, ricchissimo di spunti teorici, è stato seguito da Cirese senza mai trascurare continui riferimenti alla tradizione di studi nazionale, di cui egli è stato autorevole promotore e che ha repertoriato criticamente in varie opere. Tra queste un posto particolare occupa il manuale Cultura egemonica e culture subalterne edito a Palermo nel 1973, un’opera costruita in chiave gramsciana, che utilizza la prospettiva interpretativa dei dislivelli interni ed esterni di culture per rappresentare la complessa materia oggetto di studio degli antropologi.
Alberto Mario Cirese ha occupato un posto speciale anche nella storia della museografia demo-etno-antropologica italiana. Come ha osservato Pietro Clemente, oggi presidente di SIMBDEA, tra i suoi allievi quello che in questo settore ha più proseguito la riflessione in dialogo critico con il maestro, egli non ha mai 'firmato' un museo ma i musei li ha studiati, ne ha scritto e di molti è stato concettualmente 'padre'. Proprio per questo la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demo-Etno-Atropologici, nel 2004 gli ha assegnato il Premio MuseoFrontiera, sostenuto dalla seguente motivazione: “Ad Alberto Mario Cirese, per una storia piena di idee di museo, di influenze dirette e indirette sui musei realizzati, e per l’ impegno di direzione nuova, a Taranto, del Museo Majorano, nato da un debito di memoria in cui il museo, tenace progetto, frontiera del futuro, lega i vivi ed i morti e non accetta la smemoratezza”.
A partire dal 1968, anno di pubblicazione di un saggio intitolato “I musei del mondo popolare: collezioni o centri propulsori della ricerca?”, quello che era stato l’occasionale intervento a un convegno palermitano su Museografia e folklore, divenne il punto di ripartenza degli studi italiani sui musei. L’intervento di Cirese, infatti, riposizionava in modo originale l’interesse dell’antropologia per un tema praticamente abbandonato all’indomani del Primo Congresso di Etnografia Italiana del 1911.
Insieme ad altri successivi contributi, quel testo pochi anni dopo confluì nel volume einaudiano Oggetti segni musei (1977), la cui attualità è certo testimoniata dalla diffusa ricezione delle idee di Cirese anche al di fuori dell’ambito demoetnoantropologico, segno evidente di uno sdoganamento delle discipline dea e della sua museografia anche da parte di settori disciplinari a lungo refrattari come quello storico-artistico. Per quanti si sono occupati professionalmente di museografia antropologica, resta un dato riconoscere che Cirese con quel volumetto reinventò e rilanciò un settore di studi come anche la necessità di sue competenze specifiche. Ciò avvenne sollevando un argomento che ancora oggi è decisivo per il nostro operare: "Il museo è altra cosa dalla vita (…) Per aderire alla vita, il museo deve trasporla nel proprio linguaggio e nella propria dimensione, creando un’altra vita che ha le proprie leggi forse omologhe a quelle della vita reale ma comunque diverse da esse (…) Il museo ha un linguaggio che è un meta-linguaggio in rapporto ai dati di fatto empirici".
Con questa densa osservazione Cirese non solo coglieva i limiti, a volte ancora oggi evidenti, del circuito museale etnografico, ma apriva le porte a una riflessione più ampia sulle implicazioni teoriche del museo contemporaneo come fenomeno culturale complesso. Proprio a partire da quegli enunciati, poi metabolizzati in pratiche museografiche decennali, l’antropologia museale post-ciresiana sceglierà di indirizzarsi oltre i codici scientifici indicati da Cirese. E pur non escudendoli – come segnalerà Clemente in un volume che accoglie la presenza dialogante del maestro (Graffiti di museografia antropologica italiana, 1997), si orienterà “verso la ‘scenografia museale’ e verso l’istanza primaria del visitatore di uno spazio estetico, insieme progettato e aperto all’esplorazione” .
In ogni caso, non c’è dubbio che tutta la museografia “militante” e di base degli anni Settanta, che sulla teoria ciresiana del museo come metalinguaggio si è formata, sia da considerarsi “figlia” di Cirese e del dibattito che Cirese ha riaperto. E se anche Cirese non si impegnò in imprese museali, il suo nome resterà legato molto da vicino ad esperienze importanti quali la mostra della collezione Alfredo Majorano di Taranto, il progetto di museo della Mezzadria di Buonconvento, la valorizzazione della raccolta Ettore Guatelli di Ozzano Taro, tutte accompagnate al loro farsi istituzioni museali.
L’interesse di Cirese per i musei ha avuto le sue ragioni biografiche. Non solo per gli studi universitari con Paolo Toschi, al cui nome è legato il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Prima degli impegni accademici, nel 1953, egli aveva soggiornato con una borsa di studio al Musée de l’Homme di Parigi diretto da George Henry Rivière. Inoltre, sempre in quegli anni, era stato un visitatore curioso e attento del Museo della scienza di Monaco di Baviera. Quest’ultima esperienza, in particolare, fu decisiva nello stimolare il saggio del sessantasette, poiché è lì che germinò uno dei temi divenuti poi ricorrenti nella sua riflessione museografica: il tema delle ‘tecniche morte’, cioè di quanto il museo non abbia altra funzione se non quella di provare a rivitalizzare tecniche non più in uso; un tema dietro al quale c’è un’immagine didattica del museo, che discende appunto direttamente dai musei della scienza, in quegli anni già rappresentativi in Europa di una realtà piuttosto consolidata.
C’è un libro, nella bibliografia ciresiana che consente di cogliere, dopo Oggetti segni musei, gli sviluppi della sua riflessione e ci permette di riconoscere continuità e fratture nella museografia che conduce fino ai nostri giorni. Si tratta di una raccolta di scritti, per lo più occasionali, intitolata Beni volatili, stili, musei(2007).
Già nel titolo vi troviamo due tematiche che hanno a che fare con questioni di tutela e di valorizzazione estremamente attuali: quella del patrimonio” volatile” e quella degli “stili tradizionali”. L’espressione beni ‘volatili’ non ha avuto fortuna nel mondo dei beni culturali. Cirese l’aveva introdotta con grande pertinenza e lungimiranza per indicare una categoria di beni culturali che per essere fruiti devono essere ri-eseguiti o "ri-fatti" (canti, fiabe, musiche, performances, immagini audiovisive, testimonianze orali e storie di vita) e alla cui salvaguardia Cirese si era dedicato già negli anni Sessanta, fondando assieme a Gianni Bosio l’Istituto Ernesto de Martino (1966) e dirigendo il lavoro di raccolta di “tradizioni orali non cantate” per la Discoteca di Stato (1968-72). La categoria proposta da Cirese ha trovato una sua recente valorizzazione sotto l’espressione di ‘immateriale’ o “intangibile”, perdendo quella dimensione “in-oggettuale” che permette di riconoscerne meglio la singolare specificità.
Il tema del rapporto tra ‘tipicità’ e ‘tradizione’, ha invece permesso a Cirese di tornare a segnalare la prospettiva di una tutela rivolta non solo alle attività espressive e cerimoniali (le feste, i canti), ma anche alle produzioni alimentari e artigianali in generale. Puntualizzando che il ‘tipico’ non è ‘ciò che è fedele al passato’, vale a dire l’autentico, ma - nella moderna idea processuale di tradizione - qualcosa che può essere riconosciuto solo adottando la nozione di ‘stile’ quale chiave di identificazione dei modi di produzione e consumo del bene.
Sono questi solo alcuni degli spunti che la produzione museografica della bibliografia ciresiana lascia al nostro lavoro e alla nostra riflessione. Si tratta di spunti innervati su un’idea di museo pensata in termini di istituzione culturale impegnata a raccogliere per conservare, ma anche a costruire, con mostre ed eventi, discorsi rivolti alla contemporaneità. Chiamati come siamo ogni giorno a interrogarci sul senso del nostro fare professionale, è difficile non riconoscersi nelle ragioni di quell’idea, che Cirese ha sempre continuato a spiegare pressappoco così: la forza delle operazioni museografiche discende dalla capacità degli oggetti di diventare il segno di se stessi, la qual cosa garantisce al museo quel ruolo di potente dispositivo di comunicazione e di rappresentazione di cui ogni curatore dovrebbe essere consapevole.
Vito Lattanzi