La semplicità che è difficile a farsi
musei e buon senso
di Valerio Fusi
They took all the trees
Put 'em in a tree museum
And they charged the people
A dollar and a half just to see 'em
Don't it always seem to go
That you don't know what you've got
Till it's gone
Joni Mitchell, Big Jellow taxy
Non avendo potuto partecipare al nostro incontro di San Paolo Albanese rimetto a tutti, per quello che può valere, un breve promemoria personale come contributo mio alla discussione che si è avviata laggiù, e della quale non so niente.
Come novizio assoluto della materia dovrei muovermi in punta di piedi in questo contesto (ma chissà), e forse a qualcuno le mie osservazioni potranno sembrare scontate, o ingenue, antiquate, anche, oppure semplicemente presuntuose.
Diciamo che il mio punto di vista si avvantaggia se non altro dal non essere impacciato da un eccesso di dottrina e di letture preventive. Così può darsi persino che possa riguadagnare in termini di lucidità quello che perde in ampiezza e complessità di visione generale.
Come al solito mi concentrerò quasi esclusivamente sulla parte destruens, nella quale mi trovo più a mio agio, e in cui meglio può riuscire uno sguardo non sovraccarico di esperienza, ma sensibile più di altri – forse – al richiamo del buon senso.
Lascio agli specialisti e agli ottimisti di individuare soluzioni realistiche e pratiche affidabili, in proposito alle quali non saprei cosa inventare, e sia quello che sia.
Per gli stessi motivi mi astengo dall’organizzare il mio ragionamento per sintesi sistematiche, nelle quali non sono versato, e mi limito a brevi commenti puntiformi con cui reagisco alla lettura dei documenti preparatori che Pietro ci ha mandato.
Luoghi comuni / Rilevo, per cominciare, che la discussione potrebbe avvantaggiarsi di una preventiva depurazione da alcuni luoghi comuni che sembrano ormai accettati come dati di fatto incontrovertibili [“salviamo i musei: dai luoghi comuni” per parafrasare il titolo di un vecchio libro del saggio Alfredo Serrai, dedicato alle biblioteche italiane]. Li elenco tutti qui sotto, per paragrafi.
Crisi e crisi dei modelli / Il vecchio modello di museografia (patrimoniale-identitario) è in crisi, si dice. Sembra così ovvio che nessuno pensa di spendere qualche parola non generica sulla natura e sulle caratteristiche di questa crisi. D’altra parte sappiamo che questi sono tempi di crisi generalizzata, e tanto basti: perché proprio i musei dovrebbero restarne fuori?
Ma la crisi è per definizione una condizione di decadenza e inadeguatezza, qualcosa che emerge da un inceppamento accertato del modello, da un malfunzionamento misurabile: quello che prima andava bene, ora non va più bene come dovrebbe.
Ma è davvero così, in questo caso? In base a quale sistema di riferimento e di misura è possibile rilevare credibilmente la natura e le dimensioni della crisi di quel modello? La qualità teorica dei suoi presupposti? Il consenso degli specialisti? L’interesse delle comunità? Il numero dei visitatori?
Davvero possiamo dire che è esistita una precedente e ormai perduta età dell’oro nella quale tutti quei parametri venivano convenientemente onorati e rispettati, il modello era vitale e funzionante, e i professori e le folle si appagavano nella sua offerta di immagini e di servizi?
Direi al contrario che, se si escludono come al solito le grandi istituzioni nazionali, la vita dei musei in Italia è sempre stata stentata e marginale. Solo che adesso la penuria di risorse pubbliche ha finito per propiziare una insofferenza pelosa verso i loro pur magri bilanci da parte di amministratori pubblici storicamente insensibili, e restii ad investire in quello che è ormai considerato un lusso inutile per la comunità.
La crisi attuale dei musei non sembra tanto il prodotto di una dinamica intrinseca, o di una inadeguatezza ontologica, quanto la conseguenza inevitabile dell’organica debolezza contrattuale delle istituzioni culturali, in un periodo in cui la lotta per la sopravvivenza si fa più dura, e servono politiche aggressive sostenute da alleati potenti, consenso dell’opinione pubblica, strategie lobbiste.
Sarà pur vero che le risorse pubbliche si sono ridotte drammaticamente, ma chi ha detto che i musei (gli investimenti per la cultura in generale) debbano essere i primi a farne le spese? Un approccio di questo tipo è solo subalterno a quella concezione esornativa e dilettantesca della cultura che già ha fatto danni spaventosi nel nostro paese, ed è paradossale che a sostenerlo debbano essere proprio quelli che ne subiscono le conseguenze. E’ un errore, sotto tutti i punti di vista, mostrare acquiescenza verso una posizione del genere (vedi sotto, a ‘moratoria’), quando si dovrebbero pretendere piuttosto politiche pubbliche espansive di spesa culturale, nell’ambito dei programmi di rilancio dell’occupazione qualificata e degli investimenti pubblici (se mai ce ne fossero, in questo disgraziato paese).
[Su una base puramente quantitativa, conviene comunque segnalare che le statistiche Touring Club per il 2010 rilevano un incremento complessivo dell’utenza museale italiana di almeno il 15% rispetto all’anno precedente, con un ragguardevole dato assoluto di quasi 38 milioni di presenze. Il che non significa affatto che la crisi non esista, ma insieme invita ad una riflessione meno di maniera, e più articolata e argomentata, sulla sua natura, caratteristiche e linee di torsione (qualcosa come un’analisi SWAT fatta bene)]
Paradigmi / “Mi sembra dunque che, se crediamo alla necessità, per i politici locali, di valorizzare il patrimonio e promuovere l'istituzione museale, dobbiamo cambiare approccio e tornare all'intuizione geniale dell'incontro di Santiago, cioè rendere il patrimonio e il museo utili alla società e al suo sviluppo. E lo sviluppo qui deve essere inteso come il miglioramento (sostenibile) della qualità di vita e del contesto in cui si vive, un approccio dunque che implica la considerazione e l'utilizzo del patrimonio come risorsa del territorio e della comunità” (De Varine).
Parole sante, ovviamente. Ma siamo sicuri che nei quaranta anni che ci separano da Santiago nessuno, dalle nostre parti, si sia posto il problema? Siamo sicuri, cioè, che quello di Santiago (almeno così come ce lo riassume De Varine) sia stato un vero cambiamento di paradigma, e non piuttosto una salutare riflessione di buon senso sulle motivazioni, gli scopi e l’insediamento sociale dei musei, cioè qualcosa che viene comunque dopo il museo, relativo ad elementi strategici, ma essenzialmente accessori e funzionali, del museo: la didattica, la formazione, la partecipazione, l’ambiente, la dialettica la cooperazione con gli altri istituti culturali, un approccio essenzialmente olistico.
O non è accaduto invece che quelle novità, pure talvolta introdotte, hanno stentato ad affermarsi e ad attecchire soprattutto per difetto di perspicuità, consapevolezza e fantasia, non trovando infine altra applicazione che nella forzosa visita scolastica, nella velleitaria voga virtuale, nella paternalistica predicazione della centralità dell’ambiente e della sostenibilità, della partecipazione comunitaria e del lifelong learning?
Reti / Sembra che oggi l’idea della rete, del sistema, sia in grado di offrire una soluzione per ogni genere di problema. Ma la rete va bene ed ha un senso solo se si costituisce tra istituzioni sostanzialmente sane, diversamente è soltanto un inutile centro di diffusione di pandemie disfunzionali, che può al meglio consentire qualche modesta economia di scala.
Se sono soprattutto le deficienze ad essere messe in rete, si finisce per incentivare solo il parassitismo delle cattive pratiche, senza ricavare benefici apprezzabili per quelle buone. Mettere in rete cattivi musei produce solo una rete cattiva. Mettere in rete buoni e cattivi non serve né agli uni né agli altri.
In periodi di crisi, peraltro, la tendenza è semmai al si salvi chi può, ed è difficile immaginare che le stente risorse (non soltanto né soprattutto quelle economiche) dei più fortunati possano essere redistribuite all’interno di un sistema le cui finalità, programmi e benefici non siano stati seriamente parametrati sulla natura e le caratteristiche dei soggetti aderenti e del territorio su cui insistono.
Ne consegue inevitabile l’invadenza perniciosa del vecchio, invincibile costume di coltivare, all’ombra della retorica cooperativistica, la logica opposta della spartizione italiota, dove prevale l’ottuso potere leonino degli assessori, e la prosopopea incolta dei loro funzionari e attachè.
Così il gradevole e benintenzionato testo Unico della Regione Toscana per la cultura – nel quale si privilegiano accortamente le politiche di sistema e di cooperazione – ha finito per agonizzare nelle secche di un regolamento applicativo appositamente studiato perché i più furbi (o politicamente garantiti) possano continuare a beneficiare delle stente provvidenze regionali in barba al rispetto di soglie, standard e parametri.
Partecipazione / “La diagnosi dovrà essere partecipativa e tesa a coinvolgere il maggior numero possibile di attori del patrimonio (proprietari e utenti), professionisti (museologi, direttori ed esperti scientifici) e responsabili locali (politici, militanti di associazioni, operatori economici). Ciò permetterà non solo di fare un "inventario", ma anche di conoscere e raccogliere un primo gruppo di persone motivate e a vario titolo capaci di svolgere un ruolo in una futura strategia patrimoniale” (De Varine).
Ancora buon senso: chi potrebbe contestare sensatamente questo punto di vista?
Ma, ancora, è bene approfondire, e non fermarsi alle dichiarazioni di principio.
L’ipocrita utopia democratica, e le animucce politicamente corrette del mainstream culturale hanno fatto della partecipazione un modello retorico più che un requisito operativo e funzionale della vita civile. Di fatto la gente (il popolo, l’opinione pubblica, gli stakeholders, gli elettori, ecc. ecc.) non ha necessariamente interesse a partecipare in prima persona, sempre e comunque. La democrazia è innanzitutto un’ingegneria della delega, e non un principio mistico di consustanzialità ed eguaglianza tra soggetti diversi e diversamente dotati.
La gente vuole soprattutto che le cose funzionino appropriatamene, e che ci sia sempre qualcuno a cui affidarsi perché questo accada. Vuole soprattutto che quelli che li rappresentano siano onesti e competenti. E insieme, naturalmente, è spinta dalla pulsione opposta di salvaguardare il proprio cortile, i propri eventuali privilegi ed interessi tribali da un eccesso di eguaglianza.
La politica ha il compito di mediare tra queste opposte tendenze, e produrre il magico flogisto che garantisca ordine, benessere e consenso per tutti. Qualcosa su cui c’è poco da essere ottimisti, in via di principio, e soprattutto in questa disgraziata epoca di mezze calzette.
Per quello che riguarda i musei c’è in più il solito dilemma di ogni politica culturale (almeno per quelli che ancora sono sensibili ai dilemmi): bisognerà dire alla gente cosa deve vedere, e come vederla e apprezzarla, oppure, per converso, offrire solo quello che la gente vuole, o ci si immagina che voglia? L’alterativa apparentemente insuperabile tra la insopportabile e saccente didattica e la corriva e demoniaca attrattiva dei circenses.
Da una parte la vecchia deformazione professionale dei chierici, contratta nell’atmosfera viziata delle aule scolastiche e universitarie: un principio di autorità intellettuale che dovrebbe legittimare il potere di formulare giudizi di valore e indirizzare comportamenti e valutazioni (salvo accorgersi, prima o poi, che il mondo – anche il piccolo mondo dei musei pubblici - è più vasto di un’aula scolastica, e risponde ad autorità e dinamiche di altro ordine).
D’altra parte, senza nessuno che la indirizzi, la istruisca, le offra opzioni e opportunità, la gente si presenterà alla porta del museo (quando anche si risolva ad un passo così impegnativo) non con l’aspetto di una accogliente e disponibile tabula rasa, ma già preventivamente e pesantemente condizionata ed istruita dal senso comune avvelenato della strada, della televisione e dei mass media.
Come è naturale, non ci sono soluzioni di alcun genere per questo dilemma, ma è importante esserne consapevoli, e imparare a barcamenarsi accortamente tra questi due inevitabili scogli. In alternativa c’è solo il feroce darwinismo culturale, dov’è pianto e stridore di denti, e i buoni non vincono mai.
Identità / Il museo è patrimoniale-identitario, per definizione. Altrimenti non è un museo. I musei che programmaticamente rifiutano questa precondizione ontologica si chiamano ancora musei (forse: salvo che i loro progettisti, come spesso accade, non si industrino a definirli con un qualche neologismo più evocativo), così come si chiamano ancora arte sia le installazioni di arte contemporanea che la Pietà di Michelangelo. Ma è solo per un equivoco semantico, o per pigrizia mentale, o anche, più semplicemente, per imbrogliare le carte. Non ci sarà opera di Damien Hirst che faccia passare la voglia di ammirare la Pietà, né ecomuseo partecipato che qualcuno possa preferire al Louvre, o al British, oppure anche a un qualsiasi piccolo museo di provincia che metta insieme i cocci degli antepassati, o descriva le loro bizzarre attitudini verso la vita.
Ecco una vignetta geniale di Sempè sul New Yorker: nella camera di Luigi XIV, a Versailles, una guida si affanna a magnificare la bellezza dei soffitti affrescati, ma gli sguardi di tutti i turisti sono rivolti altrove, sotto il letto a baldacchino, affascinati dal vecchio vaso da notte del re che un bambino ha scoperto sollevando le lenzuola.
“Quello che dio ha celato ai sapienti, lo ha rivelato ai bambini”: c’è un tipo di saggezza ironica, in questa immagine, che museografi, allestitori, progettisti e teorici del museo dovrebbero coltivare, per il bene loro e della disciplina.
Poco o tanto, e comunque, tutti i musei hanno a che fare con l’identità. Il museo è la personificazione dell’identità, la sua figurazione, il tentativo di materializzare e di rendere tangibile la percezione di appartenenza della tribù.
“Questi erano i tegami dei nostri antenati” mi disse una volta (senza alcuna ironia) una delle custodi del museo archeologico di Grosseto. E in quei tegami è racchiuso un tesoro ancora più ricco di quello delle pentole dell’oro nascoste all’estremità dell’arcobaleno, qualcosa a cui nessuno vuole rinunciare.
E’ per questo che gli indigeni vogliono comunque il loro museo, anche quando non si curino di frequentarlo, anche quando non c’è modo di fargli mettere i piedi lì dentro per una volta: uno stemma araldico, lì in alto, cementato alla parete del palazzo comunale, a cui si stenta a dedicare una sola occhiata, ma che deve esserci, comunque.
L’identità è una parola (un concetto) controverso e abusato, sfibrato ormai dagli infiniti tentativi di definizione e dalle sofisticherie dell’esegesi. Ma è un fantasma fracassone molto tenace e sicuro di sé, tenuto in vita e in salute dall’opinione e dal senso comune, e tanto vale ammetterlo così come vuole nella nostra discussione, in mancanza di meglio, senza andare troppo per il sottile, riconoscendogli tutti i diritti di un interlocutore ingombrante ma indispensabile.
Ha detto bene Pietro che c’è un paradosso tra la vocazione, la pulsione identitaria dei musei, e la voga antiidentitaria dell’antropologia contemporanea (almeno di una sua parte significativa e accademicamente influente). E’ un problema che riguarda i fondamentali della disciplina, e racconta di un disagio profondo e salutare di fronte alle squadernate certezze e semplificazioni della tradizione e dei vecchi poteri accademici. E tuttavia bisognerà pure – almeno a fini dell’esercizio pubblico delle proprie competenze e professionalità - che i buoni antropologi riflettano bene sulla utilità e sul senso di segare il ramo su cui sono appollaiati, nel tentativo di barattare il proprio patrimonio genetico con i dubbi benefìci del dubbio epistemologico o, peggio, con una volatile patente di correttezza politica.
D’altra parte, nel campo più vasto delle scienze umane, un riflesso edipico di questo tipo sta poco a poco riassorbendosi in un clima di pesante revanchismo filosofico, all’insegna di una rinnovata fiducia nella affidabilità e durezza dei concetti di realtà e oggettività, ed è tutto un torvo accendere ceri all’onnipotente principio di verità.
Non è certo un male che in questo contesto di accigliato richiamo all’ordine gli antropologi continuino invece a interrogarsi sui fondamenti (anche quando non ne sappiano ricavare altro che panorami ideologici bizzarri ed esangui), ma sarebbe saggio tenere i musei per quanto possibile fuori da una discussione i cui benefici per il destino e la gestione del patrimonio rimangono al momento ancora alquanto dubbi.
Virtuale / L’aggettivo virtuale si usava una volta in senso quasi spregiativo: una cosa che sta per la realtà ma non è la realtà, il denaro che non puoi spendere, un’illusione ottica. Oggi è un termine virtuoso e – ovviamente – abusato.
Di musei virtuali ce ne sono di utili e di futili, ma anche quelli buoni non sono più buoni di un videogioco di media complessità. Pensare di adescare le giovani generazioni parlando il linguaggio che crediamo che usino è comunque una strategia opportunistica e più complicata di quanto si creda, che poggia peraltro, guarda caso, su un approccio identitario di grana alquanto grossa.
La gente non apprezza necessariamente soltanto le cose facili, la strada spianata. E’ invece ben disposta ad affrontare fatica ed impegni, se è convinta che alla fine del percorso gli sarà dato in cambio qualcosa che sia valsa la pena.
I musei tradizionali hanno il pregio, e la qualità, l’ontologia della durezza: lì ci sono le cose vere, le cose come erano allora. Negli oggetti che vediamo, che qualche volta possiamo toccare con mano, deve di necessità essersi impigliato qualcosa della realtà, del mondo di cui facevano parte: un riflesso condizionato percettivo e mentale che non ha senso negare e tanto meno contrastare: la parte per il tutto, una sineddoche culturale di enorme potenza e suggestione.
Come già la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (a dispetto delle dotte previsioni) non ha tolto nulla (e semmai aggiunto) all’aura del prototipo, così nell’epoca della potenziale virtualizzazione tecnica dell’oggetto museale, la corporeità e la durezza rimangono la sua maggiore attrattiva e fonte di fascino, in un mondo infestato da invadenti ectoplasmi informatizzati che rendono più facile e conforme la vita di tutti.
Stakeholders, governance / Se vogliamo adottare questo tipo di linguaggio, e farne l’uso migliore, bisognerà capirne interamente le implicazioni ed il significato.
Definirsi portatori di interessi implica prima di tutto che ognuno declini con precisione le proprie generalità, dimostri di quali interessi è portatore e quali sono i titoli che può accampare per potersene dire rappresentante. Soprattutto dovrà specificare quale ritiene che sia il peso dei propri interessi all’interno delle dinamiche del sistema, ed indicare con precisione che cosa è disposto a mettere in circolo, e che cosa chiede in cambio. La governance non è un volenteroso patto di affratellamento tra soggetti e agenti per un verso o per l’altro accomunati dall’oggetto del loro interesse, né una attitudine generica alla cooperazione in cui ognuno è chiamato in causa per fare del proprio meglio.
Come in tutti i progetti che hanno un senso, ci vuole una logica, un sistema, una organizzazione, una gerarchia di poteri riconosciuti, una condivisione governata dall’interesse reciproco, una remunerazione appetibile (non necessariamente né soprattutto economica).
Chi avrà titolo, o potere, o autorità, per separare il grano dal loglio, il crudo dal cotto, per coordinare gli stakeholder, dichiarare moratorie, e, soprattutto, per stare di guardia alla porta della stanza del tesoro?
E chi potrà candidarsi al ruolo di mastermind, governatore, fluidificatore, redistributore e rangatira del sistema?
In questo ambito, se interrogato, il museografo (e tanto più il museografo/antropologo) potrebbe trovarsi a fronteggiare seri problemi di identità (ammesso, di nuovo, che riconosca legittimità a questa fatale paroletta).
Già dall’insieme dei testi che Pietro ci ha sottoposto, pur tutti abbastanza determinati nell’individuare le cose che dovrebbero essere fatte, o almeno le direzioni da prendere, non si capisce bene da dove provengano davvero quelle voci, quale siano gli interessi in nome dei quali vengono formulate quelle ipotesi, quale la natura e la qualità della competenza dei proponenti.
E d’altra parte, chi è mai questo museografo? un manager, un amministratore? Oppure un progettista, un allestitore, un architetto? O un versatile professionista educato a Santiago? O piuttosto – orrore - un politico? Certo uno specialista, un accademico formato nella ‘scienza’ dei musei, qualunque cosa si intenda con questo (e che una scienza ci sia lo dimostra, pare, l’esistenza di cattedre di museografia nelle nostre università).
Di fatto, il suo ruolo si colloca a metà strada tra la mosca cocchiera e il consigliere del re, ma in nessun caso le decisioni che contano sono rimesse a lui. Anche a questo bisognerà rassegnarsi, e spremere semmai il massimo dalla reputazione scientifica e dall’ aura sapienziale dell’accademia, giocandole nel complesso sistema di interessi che gravita intorno agli investimenti museali, nel quale tendono a prevalere gli stakeholder sbagliati e aggressivi che parassitano da sempre le pubbliche amministrazioni.
Infine bisognerà pure parlare di pubblico (l’utenza, i visitatori, gli amici dei musei, la gente in genere, il corpaccio manzoniano), lo stakeholder principale che nessuno prende in considerazione se non per rivendicarne retoricamente e acriticamente la centralità, o per lamentarne la latitanza.
E converrà rendersi conto che il pubblico, come entità sociale e umana, non esiste: esistono semmai i pubblici, le fasce, gli strati, le classi sociali (eh, sì), gli interessi orizzontali e verticali, le opinioni e le inclinazioni organizzate, gli studenti e i professori, le carampane e i ricercatori, i lobbisti, i Lyonisti.
Ciascuno di loro è a sua volta uno stakeholder, ed il sistema deve sapere quando conviene, o abbia senso, rispettarlo, stimolarlo, soddisfarlo, oppure, al contrario, emarginarlo ed ignorarlo, e modellare su queste scelte la natura e il linguaggio del museo di cui ha la responsabilità. Politica, ancora.
Moratoria / ecco una proposta apparentemente sensata, che invece trasuda moralismo e sconcerto. Così come con la moratoria nucleare, su cui tutti sono d’accordo, a patto che chi già ha gli arsenali continui a tenerseli. E altri si arrangino come possono.
Il discorso sulla moratoria avrebbe un senso se le risorse per i musei si trovassero tutte in un unico mucchio, tale che spenderne per i nuovi sottrarrebbe energia ai vecchi, e forse ha senso davvero nella patria di de Varines, nella quale qualcosa di simile accade, e gran parte dei finanziamenti pubblici per la cultura è rimessa ad un organismo statale centralizzato.
Da noi, riesce difficile immaginare che rinunciando all’apertura di un nuovo museo a Capalbio possano derivarne vantaggi per quello di Grosseto.
E in ogni caso non è questo un problema dei museografi, né degli antropologi, né degli antropologi museali. E’ un problema della pubblica amministrazione, ed è una competenza professionale di chi si occupa di programmazione e distribuzione delle risorse.
La deriva moltiplicativa è fisiologica in questa materia (tutti vorrebbero il loro antiquarium, la casa contadina, la collezione di croste) e deve essere ragionevolmente contrastata, ma è controintuivo ed autolesionista che siano i creatori di musei a proporre di sospendere la creazione di musei.
Possono semmai candidarsi per selezionare la qualità e l’utilità di quelli proposti, a supporto delle decisioni delle amministrazioni pubbliche. Ma questa è un’ovvietà, peraltro praticata estensivamente, sebbene, com’è ormai costume, con logiche spartitorie e di compromesso.
Converrebbe semmai decidere, invece, di aprire sempre più musei che servono davvero, e chiudere quelli che non servono, piuttosto che tenersi istituzioni inutili e pleonastiche, rinunciando a farne di nuove ed intelligenti.