Discorso di Claudio Rosati in occasione del premio Honoris causa di ICOM Italia
Quando Alberto Garlandini, il nostro
presidente, mi ha telefonato per comunicarmi la decisione di attribuirmi questo
riconoscimento gli ho subito detto se erano proprio sicuri di quello che
facevano. Che cosa ho fatto di così significativo per i musei? E che cosa posso
dire oggi di utile a una riflessione alle colleghe e ai colleghi? L’esperienza,
dice il filosofo, non ci fa saggi, ma tutt’al più esperti e non sempre anche
questo è vero. Ho pensato, allora, che posso dirvi solo una cosa che ho sentito
e sento tuttora autentica e alcune considerazioni che derivano da questa e che
nonostante tutto, talvolta ho disatteso concentrandomi più su un’idea astratta
di museo che sui processi che può generare.
La cosa che sento rispondente al vero
ha un’origine lontana. Paul Valéry dice che non c’è teoria che non abbia in sé
una biografia. Ho visto il primo museo poco più di cinquanta anni fa. Avevo
dieci anni. Il babbo mi aveva portato al Museo Stibbert a Firenze. Ho ancora
vivida l’impressione provata di fronte alla cavalcata di guerrieri, ad altezza
naturale, armati di tutto punto. Salgari
era lì. Poi nel tempo sono seguiti Pitti, gli Uffizi, tutti i musei fiorentini.
Partivamo da Pistoia in autobus e andavamo a Firenze al museo. Quella
generazione che aveva fatto la guerra, che aveva conosciuto fame e privazioni
ci allevava come forse, oggi, non sappiamo più fare. Ho sentito potente quel
medium affettivo. Il primo museo è stato una persona, mano nella mano. Ho
ritrovato questa vocazione alla cura nella collaborazione con l’Associazione
Crescere che organizza, da alcuni anni, incontri delle famiglie con il museo
perché diventi domestico, familiare, perché quella soglia che divide, come è
stato detto, interno ed esterno con la stessa nettezza di un sì e di un no, non
sia un ostacolo insormontabile. Nell’esperienza che ho fatto con le famiglie al
Museo degli Innocenti, al Museo di Leonardo da Vinci, al Museo Galileo, al
Museo Civico di Pistoia, ho visto che basta poco. E’ come se i genitori
avessero bisogno per andare al museo, che ha ancora un potere inibente, di una
specie di coperta di Linus, di un oggetto transizionale. Determinanti, poi, nel
buon esito dell’incontro, lo stare insieme ad altre famiglie, ma anche
l’autonomia e la libertà di movimento. Le scienze cognitive ci dicono come
siano importanti i primi anni di vita per la formazione futura, come le scelte
dei genitori siano fondamentali per l’adozione di nuove pratiche. Si pensi a
come la lettura a voce alta, la narrazione, la stessa manipolazione del libro siano
importanti per continuare a coltivare l’amore per la lettura. Ho letto di
recente che “andare al museo con la famiglia la domenica non è cultura”. Niente
di nuovo sotto il sole. Vi ricordate che già qualcuno aveva detto che al museo
si va la domenica con la famiglia come al cimitero. Certo, non è di per sé
cultura se ci aspettiamo dal museo effetti taumaturgici senza aver fatto
alcunché per cambiarlo e, soprattutto, senza averlo inserito in una trama di
relazioni.
Quando ero ragazzo la scuola non aveva
attività didattiche nel museo. Azzardo un’ipotesi. Se avessi scoperto il museo con la scuola
forse sarei tra quei 6 italiani su dieci, al di sopra dei 18 anni, che non sono
mai andati in un museo. Non è una provocazione, ma un’interrogazione che
rivolgo a me stesso. Come mai tanti dopo
averlo conosciuto nel periodo scolastico, per tutta la vita non ci rimettono
più piede? E’ la scuola che ha questo potere di Re Mida alla rovescia? Un effetto paradosso rispetto a quello
descritto da Pierre Bourdieu e Alain Darbel, secondo cui chi non avesse
visitato un museo negli anni della formazione non vi sarebbe più entrato. Non
lo so, ma è certo che troppe volte facciamo didattica senza pedagogia, tradendo
la missione del museo e scimmiottando la scuola. Applichiamo male Dewey e la
scuola attiva senza aver digerito Gentile. Credo che si debba riflettere su
questi aspetti per recuperare anche una visione del museo che, ancor prima di
luogo di conoscenza, è spazio affettivo, è luogo di relazioni, tramite tra le
generazioni che ci hanno preceduto e le nostre, è un ambiente di benessere,
dove dovremmo stare bene soprattutto con noi stessi, senza ansie di
apprendimento.
Bruno Bettelheim dice che i musei
servono a “incantare, soprattutto i bambini, a dare loro la possibilità di
provare meraviglia, un’esperienza di cui hanno disperatamente bisogno”. E’
questa la condizione, diceva Bettelheim, che innesca la conoscenza. Spesso
invece noi professionisti museali siamo sacerdoti di una chiesa che chiede non
rispetto, ma fede. Nel film “I cento chiodi” Ermanno Olmi ci dice che cosa può
comportare la venerazione del sapere che finisce per disconoscere l’uomo. La
conservazione, imperativo categorico della nostra missione, se disancorata dal
suo fine ultimo che poi è quello di sperare che un nostro simile riconosca
l’opera come tale, diventa sterile. Possiamo conservare anche un canopo etrusco
in un museo che non ha un visitatore, ma possiamo farlo solo credendo con
convinzione che un giorno, forse, quando non ci saremo più, quella reliquia
sarà guardata, vivificata dallo sguardo di un nostro simile.
“E’ successa al Louvre una cosa
terribile”, scrive Alberto Giacometti. “Un tempo trovavo al Louvre le cose che
amavo più belle della realtà, come fossero un’esaltazione della realtà (…).
Oggi le persone che guardano i quadri mi stupiscono molto di più dei quadri
stessi”. Persone e opere formano un paesaggio unico che ci meraviglia ogni
volta per la sua armonia o dissonanza. Quando
guardiamo una foto di Thomas Struth, che si è posizionato in un museo di fronte
agli uomini e alle donne che guardano un dipinto, sentiamo di essere di fronte
a un’altra opera d’arte e non solo perché frutto del lavoro di un grande
artista. Il pubblico, al quale diamo le schede per la rilevazione della
soddisfazione, sono persone. E come tale dovremmo considerarle. Sono persone
anche quando sputano su un’opera di Fontana come è avvenuto nel 2010 alla
Galleria nazionale d’arte moderna a Roma. Trovo esemplare, a questo proposito,
la reazione della soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli che a partire da
quel “no” gridato con disprezzo dall’anonimo visitatore ha deciso di dedicare
una mostra al concetto di taglio nel Novecento.
Ha esercitato l’ascolto che era possibile in quella situazione.
Un ascolto che si svolge sempre in
uno spazio intersoggettivo, in un rilancio all’infinito di un dialogo che
ricerca un punto di equilibrio. “Io ti ascolto” vuol dire anche “ascoltami”.
Nel 2005 ho letto centinaia di
commenti che i visitatori della Galleria dell’Accademia di Firenze hanno scritto
sugli album che la direttrice aveva predisposto per coloro che avrebbero
guardato il David insieme alla mostra “Forme per il David”, promossa in
occasione del cinquecentesimo anniversario dell’opera di Michelangelo. Come
reagiva il pubblico di fronte alle opere di Thomas Struth, di Jannis Kounellis,
Luciano Fabro, Robert Morris e Georg Baselitz? Mi si è aperto un mondo, forse
prevedibile ma sempre stupefacente, di assoluti di ammirazione e di condanna.
Non potevo risolvere la questione astraendomi da quel gruppo, basandomi sulla
differenza “io” e “loro”, perché anch’io faccio parte di quella umanità. Le
scritte che esprimevano l’irritazione per la profanazione di quel tempio
manifestavano, a parer mio, una volontà di non restare esclusi proprio
dall’arte che è a noi contemporanea, una volontà di comprensione; una
richiesta, in definitiva, di democratizzazione dell’arte di oggi sentita come
appannaggio di pochi.
I musei sono per le persone. Le
invettive, talvolta lucide quanto compiaciute contro il museo, ci riportano
all’autismo dell’opera, al parossismo da balzacchiano cugino Pons. Non
ascoltiamo queste sirene che ieri ci illusero e oggi ci illudono. Non ho ancora
letto che qualcuno di questi intellettuali abbia scritto qualcosa sul fatto che
gli istituti culturali sono considerati per le finanze pubbliche servizi
“aggiuntivi” e non essenziali, non espletati cioè a garanzia di diritti
fondamentali, e che con il nuovo ordinamento delle Province scomparirà la
competenza della cultura.
“Dietro le cose, le persone”, recita il
sottotitolo di una bella mostra al Museo Pigorini, che sta da tempo, senza
clamore, praticando un attento ascolto museografico, ma dobbiamo anche dire di
fronte alle cose le persone.
James Clifford ha scritto che non c’è
un’istituzione più europea e più borghese del museo, facendoci intravedere così
gli agenti di una possibile crisi. Sicuramente il museo sopravvivrà a noi,
anche se forse si evolverà in qualcosa che non riusciamo ad immaginarci. La sua
è sempre stata, in fondo, una storia di fragilità e di critiche. Ma non mancano
segni di speranza e credo che debbano essere visti là dove persone raccolgono i
pezzi di una carlinga squarciata da un missile e decidono di farne un museo o
recuperano da una discarica, come a Lampedusa, scarpe, lettere, oggetti dei
migranti e costruiscono memorie
chiamandole “museo”. Queste persone testimoniano una democratizzazione
dell’istituzione che nessuna comunità professionale può disciplinare o fermare.
Danno soprattutto speranza al futuro del museo come luogo civile.