Protesta profili DEA - Gianfranco Spitilli

Teramo, 17 ottobre 2009

L’ESTINZIONEDI UNA PROFESSIONE MAI VERAMENTE RICONOSCIUTA

Demoetnoantropologo

 

Evidentemente questa definizione vi dà fastidio, o vi risulta incomprensibile.Eppure esistiamo: siamo antropologi, etnologi, o etnoantropologi o demoetnoantropologi,con una storia radicata e importante. É una categoria professionale, come lopsicologo, il notaio, il medico, anche se non abbiamo un ordine professionale.Non credo che otorinolaringoiatra suoni meglio.

Ci occupiamodi uno specifico settore del patrimonio culturale, di materia viva, in genere.Eppure qui pare che tutti abbiano diritto ad un riconoscimento tranne noi.Trovo scandaloso, non preoccupante ma scandaloso che il nostro IstitutoCentrale sia diretto da una storica dell’arte. Sono discipline affini, inqualche maniera, ma noi apparteniamo alle scienze sociali. Voi andreste acaccia di cinghiale con una canna da pesca? Sarebbe doveroso far dirigerequesto istituto da un ANTROPOLOGO, ETNOLOGO, DEMOETNOANTROPOLOGO o come vipiace chiamarlo, purché abbia una formazione professionale in questo settore.

Nelle Regionidovrebbe essere obbligatoria l’assunzione di personale con la qualifica di demoetnoantropologo,nelle Province e nei Parchi altrettanto, per non parlare degli infiniti entiterritoriali e dei musei. Sarebbe una crescita culturale per tutto il Paese, unpasso fondamentale. E questo obbligo dovrebbe venire da direttive ministerialie non lasciato alle iniziative o alle non-iniziative delle Regioni o degli entilocali, che spesso non hanno neanche la cognizione di cosa si stia parlando.

Perché nelleSoprintendenze e nel Ministero non è previsto tutto questo? Noi ci occupiamo dibeni materiali e immateriali, con un carattere ed una storia particolari, nonequiparabili a nient’altro se non alla categoria dei benidemoetnoantropologici, né diluibili in altre, e che hanno necessità di unoperare continuo nei territori. Lavoriamo senza risorse, inventandoci millestrade faticosissime e spesso umilianti per riuscire a fare il possibile, senzanessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, o del tutto casuale e “miracoloso”.

Questo almenoè il caso della regione Abruzzo, dove lavoro da diversi anni. In Abruzzo, nellateoria e nella pratica, non esistono posti di lavoro per demoetnoantropologi.Esiste però una Soprintendenza, che opera sul territorio, e che ignoracompletamente la materia, le metodologie, e nel nostro campo non fa nulla o facose inutili e insensate.

Non ci sonoposti nei musei, nelle università, se non uno di ricercatore a L’Aquila e qualchecontratto sparso; non esistono nella Regione, non nelle Province e soprattutto nonesistono nei Parchi, che dicono di valorizzare il nostro territorio. Basta leggereun qualsiasi Piano del Parco per capire quanto poco peso abbia la cultura dell’uomoal suo interno, e quanto sia invece sempre più proposta l’immagine e la messain pratica di una natura falsamente ideale, selvaggia, non addomesticata e nonaddomesticabile come al contrario è stato per migliaia di anni, nel rispetto enella convivenza. I risultati sono l’invivibilità e l’ingestibilità di questiterritori, e uno spopolamento drammatico al quale la politica non sa trovarealcuna soluzione. Chi conosce l’Abruzzo interno sa bene queste cose,soprattutto lo sa chi ci vive. Siamo demoetnoantropologi e ci occupiamo della convivenzadelle culture, della loro diversità inalienabile, e il nostro contributo è fondamentaleancora di più in una realtà sociale che sta cambiando e che, se da un lato lasciaterritori spopolati e abbandonati a sé stessi, dall’altro ne forma di nuovi e sovraffollati,congestionati, dove la convivenza diventa sempre più difficile senza la comprensionedi queste diversità.

Non appartengo stabilmente a nessuna istituzione, per questo motivo parlo a titolo personale.E personalmente sono indignato e chiedo che siano riconosciuti i miei diritti al lavoro. Ho una formazione professionale e umana da antropologo, con laurea, dottorato e post-dottorato in corso: un percorso di tipo specialistico nel settore demoetnoantropologico.So quale può essere il mio contributo e credo sia nei miei diritti esigere chesia messo nelle condizioni minime per darlo, altrimenti è inutile proporre dei percorsidi formazione professionale come quelli che io ho perseguito. Quando vado negliEnti voglio parlare con interlocutori adeguati, preparati e consapevoli, che conoscanola materia, i problemi che tratta, le questioni di cui si occupa; voglio che cisiano leggi in grado di sostenere progetti e iniziative nel mio ambito diricerca. Conosco le situazioni reali, e le necessità reali, ma senza strumentiadatti non è possibile andare avanti. Non sono uno storico dell’arte, sono undemoetnoantropologo, e non ho intenzione di andare a studiare gli affreschi della chiesa di Santa Reparata, né di fare il censimento dei campanili delle cattedrali. Tanto meno ho desiderio di scrivere saggi sui portali dei palazzi del ‘500. Mi occupo di materia vivente, di uomini, donne, comunità,luoghi,processioni, rituali, religiosità, biografie, questioni sociali, patrimonio,canti,saperi, memoria. Forse dovrei piuttosto emigrare nei luoghi dove alla mia professione sono dati dignità e corrispettivi stipendi, e non questo continuo insulto e una manifesta volontà di negazione ingiustificabile, contrari alla nostra storia e alla nostra cultura.

Grazie dell’attenzione

Gianfranco Spitilli

demoetnoantropologo

 

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