Conviene allora restare ai margini di un percorso codificato e controllato di tutela dei beni culturali? Sicuramente, l’ambito DEA ha delle proprie specificità che rendono necessarie delle distinzioni rispetto alle procedure previste per le altre tipologie di beni. Ma la vasta esperienza che caratterizza ormai il settore storico artistico nel campo della conservazione suggerisce di prendere ispirazione da questo per molti degli aspetti già analizzati e sperimentati.
Si tratta di sensibilizzare alle problematiche base della salvaguardia
gli operatori e i responsabili che a vario titolo si occupano di
raccolte di materiale di interesse etnografico, soprattutto per
diffondere la consapevolezza del valore primario attualmente
attribuito al ruolo della conservazione preventiva e della
manutenzione. Mentre il restauro vero e proprio è da considerarsi solo
la soluzione finale di un percorso di tutela per qualche ragione
fallito.
“Per conservazione preventiva s’intende l’insieme delle misure adottate
per prevenire o ridurre i possibili danni alle collezioni. In altre
parole, le modalità con cui si compiono operazioni quali, ad esempio,
la movimentazione, la gestione delle collezioni in esposizione e in
deposito e il monitoraggio microclimatico, sono elementi determinanti
nella pratica della conservazione preventiva. In effetti, la
conservazione preventiva ha come obiettivo la protezione delle
collezioni nel loro insieme, piuttosto che l’azione rivolta al singolo
oggetto e s’incentra prevalentemente sul concetto di “non intervento”,
piuttosto che su quello d’intervento di restauro.” (Getty Conservation
Institute 1994, in Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali
della Regione Emilia-Romagna 2007: X)
Anche per i beni DEA ha senso investire innanzitutto nelle pratiche
virtuose di cura, in grado di rallentare il più possibile il naturale
processo di degrado del bene, considerando invece con la giusta cautela
l’opportunità di realizzare interventi più invasivi che vanno a
modificare la struttura e dunque l’aspetto originario del bene. In
primo luogo, gioca un ruolo fondamentale la collocazione del materiale
in uno spazio sicuro, protetto cioè da quei fattori ambientali causa
prima di degrado, quali: umidità, temperatura e luce.
Molto spesso l’esistenza dei musei etnografici è caratterizzata da
condizioni di precarietà e dalla cronica carenza di mezzi, fattori che
rendono inevitabilmente difficile garantire condizioni climatiche e
ambientali ottimali per la conservazione. Rimane comunque prioritario
cominciare a introdurre in questo settore, travagliato da numerose
urgenze, un nuovo livello di attenzione da cui è ormai impossibile
poter prescindere.
Forse, in alcuni casi, entra in campo infatti anche l’idea di poter
contare su un particolare grado di resistenza di questa categoria di
beni, avvezzi a condizioni estreme di sopravvivenza. È maggiormente
evidente il deterioramento provocato dalla luce del sole su un
tessuto pregiato di taffettà di seta piuttosto che su una stoffa
grezza, tessuta con lana e lino, tinti con il mallo della noce. O
ancora, è più immediata la percezione del danno arrecato ad un mobile
laccato posto vicino ad una fonte di calore, rispetto al lento logorio
fisico provocato da un termosifone troppo vicino alla tomaia in cuoio
di un paio di zoccoli in legno di pioppo. Il punto di vista della
conservazione richiede di schermare invece comunque le fonti di luce
diretta e assicurare una organizzazione consona dei sistemi di
riscaldamento. È necessario, in questo senso, prevedere per le nuove
progettualità della museografia etnografica l’elaborazione di piani di
sicurezza conservativa similari a quelli programmati per il patrimonio
storico-artistico.